Strage di Capaci, parla un poliziotto: “Costretto da Genchi a mentire”

26606089_strage-di-capaci-si-apre-una-nuova-pista-1Ci avviciniamo al 22° anniversario della strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, e soprattutto alla data d’inizio del nuovo processo sull’attentatuni (che riprenderà proprio il 23 maggio davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta), ed ecco spuntare una nuova testimonianza. Dopo oltre un ventennio, quindi, ci troviamo ancora una volta di fronte a segreti, depistaggi, verità nascoste.

Stavolta a parlare, secondo quanto riportato oggi dal quotidiano La Repubblica, è un agente della polizia stradale che, il 26 maggio 1992, avrebbe segnalato a un suo superiore la presenza di alcuni operai intenti ad armeggiare attorno a un furgone bianco di una compagnia telefonica, che stazionava proprio sul tratto di autostrada tra Capaci e Palermo, fatto saltare in aria da centinaia di chili di esplosivo. Pochi giorni dopo la strage, però, e precisamente il 1° giugno, quel poliziotto modifica radicalmente quanto detto nella precedente relazione di servizio. «Mi sono sbagliato, quel furgone bianco non era sul luogo dell’attentato, ma in una stradella più sotto che mi pare si chiami via Kennedy». Allora gli inquirenti credettero a questa seconda versione e, così, di quel furgone non si seppe più nulla fino ad oggi e cioè fino a quando i magistrati della Procura di Caltanissetta si sono resi conto, circa un mese fa, dell’incongruenza delle due testimonianze.

Convocato dal procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta Sergio Lari e dagli altri pm e sollecitato dalle loro domande, l’agente ha ammesso di aver dovuto cambiare versione. «Qualcuno è venuto da me e mi ha detto che era meglio se quel furgone usciva dalla scena del crimine», ha raccontato. Ed è qui che arriva il vero colpo di scena: l’uomo che lo avrebbe convinto a cambiare versione è l’ex funzionario di polizia Gioacchino Genchi, che aveva collaborato in qualità di perito tecnico al primo gruppo d’indagine Falcone e Borsellino, sorto all’indomani della strage di via D’Amelio e guidato dall’allora capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera.

Dal canto suo Genchi, destituito tre anni fa dalla polizia «per motivi disciplinari» e oggi di professione avvocato, ha detto di non aver mai conosciuto il poliziotto che lo ha accusato di avergli fatto delle esplicite minacce per cambiare le proprie dichiarazioni (per come viene contestato nell’imputazione: «Hai fatto male a fare questa relazione, adesso o dimentichi queste cose oppure è meglio che ti prendi la pistola e ti spari»). Questo, almeno, prima del 5 maggio 1993, e ha quindi subito provveduto a contro-denunciarlo per calunnia. Intanto, però, gli operatori della Dia hanno notificato all’ex consulente tecnico, soprannominato “l’uomo dei telefoni”, l’invito a comparire davanti alla Procura di Caltanissetta con l’imputazione di «minaccia aggravata e favoreggiamento degli autori della strage di Capaci».

«Ho avuto la sensazione di trovarmi su “Scherzi a parte” – ha commentato lo stesso Genchi, a dir poco incredulo –. Purtroppo non era così. Quelli erano dei veri poliziotti, come pure autentico era il provvedimento dei magistrati nisseni». E ancora: «A distanza di oltre vent’anni dai fatti, non riesco a credere e a spiegarmi il perché di queste accuse, soprattutto da parte di un appartenente alla Polizia di Stato, che semmai quelle minacce e quell’istigazione a mentire fossero vere avrebbe avuto il dovere morale e giuridico di denunciarle immediatamente e non attendere che passasse un ventennio e che fossero dei magistrati a contestargli le sue plateali contraddizioni. Non oso nemmeno ipotizzare un complotto di qualcuno della Polizia di Stato contro di me nel tentativo di calunniarmi».

L’unica cosa certa in questa vicenda sembrano essere solo le contraddizioni, di non poco conto, ad opera di un agente di Polizia e che certamente sarebbero dovute essere approfondite parecchio tempo prima. «Non riesco nemmeno a immaginare – ha concluso Genchi – come le due relazioni di servizio dell’agente, palesemente contraddittorie su circostanze di assoluta rilevanza per le indagini sulla strage di Capaci, siano state lasciate stagionare per oltre 20 anni dai magistrati e dagli inquirenti che quelle indagini hanno svolto, chiuso e riaperto a più riprese, con i proclami sempre più roboanti, specie in occasione dell’approssimarsi degli anniversari del 23 maggio, che per un triste gioco del destino sono sempre prossimi a delle tornate elettorali».

Sarà ora compito della magistratura nissena fare luce sull’ennesimo “errore” in questo processo che, di depistaggi, ne ha già visti fin troppi e che ha portato finora alla sbarra degli imputati solo mafiosi e qualche poliziotto. Intanto, dalle carte relative alla strage di Capaci, è emersa un’altra testimonianza al vaglio dei procuratori di Caltanissetta e anch’essa rimasta fino ad oggi “sepolta”. Si tratta di Francesco Naselli Flores: ingegnere palermitano, cognato di Carlo Alberto Dalla Chiesa, che avrebbe anche lui riferito della presenza, all’altezza dello svincolo per Capaci, di un furgone bianco, forse «un Maxi Ducato», e di alcune persone che «stendevano i cavi» nella tarda mattinata del 22 maggio ’92. Nonostante le dichiarazioni rese dall’ingegnere fossero state molto precise, le indagini fatte allora accertarono che nessun’azienda aveva inviato propri operai ad eseguire dei lavori su quel tratto autostradale. Ennesima circostanza inquietante, sulla quale dovranno indagare i pubblici ministeri di Caltanissetta in questo nuovo processo sulla strage di Capaci e che vede imputati, oltre al pentito Gaspare Spatuzza (che già smascherò il depistaggio sull’eccidio di via D’Amelio) e a Salvino Madonia, anche altri 9 soggetti mai finora coinvolti nelle inchieste sull’attentato del 23 maggio 1992: Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello e Cosimo D’Amato. Per vedere al banco degli imputati i protagonisti esterni a Cosa nostra bisognerà attendere ancora.

 

Matilde Geraci

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